«E se si rinunciasse a interpretare, a dare il senso e il succo del racconto, non sarebbe meglio?»
(Des Mois, 1967)
«E se si rinunciasse a interpretare, a dare il senso e il succo del racconto, non sarebbe meglio?»
(Des Mois, 1967)
Tommaso Landolfi (1908-1979) è nato a Pico, allora in provincia di Caserta. «Ultimo forse rappresentante genuino della gloriosa nobiltà meridionale», per usare una sua stessa espressione (LA BIERE DU PECHEUR), trascorre tra Pico, Roma e la Toscana gli anni dell’infanzia (segnata dalla morte della madre quando aveva meno di due anni) e dell’adolescenza.
Prima a Roma, quindi a Firenze compie gli studi universitari, coltivando la sua già vasta cultura, sostenuta da un’intelligenza lucida e dialettica. Nel 1932 si laurea in lingua e letteratura russa, con una tesi su Anna Achmatova. E dal russo, così come dal francese e dal tedesco, sarà traduttore magistrale, oltre che profondo conoscitore delle letterature in tali lingue. Subito dopo la laurea, prende a collaborare a testate romane come «Occidente», «L’Europa Orientale», «L’Italia letteraria», «Oggi». A Firenze, della brigata di intellettuali che si riunivano tra le due guerre nel fiorentino caffè delle Giubbe Rosse, scrive per periodici quali «Letteratura» e «Campo di Marte».
Più consistenti e continuative le più tarde collaborazioni al «Mondo» di Mario Pannunzio (anni Cinquanta) e al «Corriere della Sera» (anni Sessanta e Settanta). Nel 1937 l’esordio, col volume di racconti Dialogo dei massimi sistemi (le cui novelle, però, erano precedentemente uscite in varie riviste; la prima, Maria Giuseppa, in «Vigilie letterarie» nel 1929). Ad esso seguiranno altri volumi di racconti, romanzi, testi teatrali e poetici, raccolte di articoli critici: più di cinquanta le opere, tra le sue e le traduzioni. Per esse riceverà i maggiori premi letterari italiani, dallo Strega al Campiello, al Viareggio, al Bagutta, al Pirandello e così via.
Spirito libero e aristocratico, è naturale oppositore del regime fascista; subisce nel 1943 un mese di carcere alle Murate, a Firenze. Sporadici, nell’arco dell’intera vita, i soggiorni all’estero, nelle capitali d’Europa; più lunghi i periodi trascorsi a San Remo o a Venezia, le «città del gioco», dov’è attirato dalla sua grande passione, parallela o sovrapponibile a quella per la scrittura. Sul gioco d’azzardo, sul significato universale di cui egli lo investe, scrive pagine intense, facendone il centro di una speculazione assai più ampia. Col tardo matrimonio Landolfi si stabilisce nella riviera ligure, ad Arma di Taggia e poi a San Remo; sempre frequenti, tuttavia, e lunghi, i ritiri al paese natale, nella casa avita che è la protagonista di tanti suoi racconti, e dove soprattutto egli lavora: «Punto primo: la penna che laggiù [a Pico] correva qui s’impunta e per avviarla ci vuol la mano di Dio. Non è un’immagine, parlo della penna in carne e ossa; anche l’anno passato, qui, faceva il medesimo lavoro, e tornata laggiù riprese a correre. A che si debba il fatto, se all’inchiostro, all’aria del luogo o a più seri e segreti motivi, non so» (Rien va). Scrittore schivo e appartato, insofferente delle mode e dei meccanismi preposti al raggiungimento della fama e del successo, è considerato dalla critica fra i massimi del Novecento, non solo italiano. Negli ultimi dieci anni si moltiplicano gli studi e i convegni sulla sua figura, le ristampe delle sue opere (il suo attuale editore è il milanese Adelphi), le traduzioni di esse anche in nazioni remote come Israele o il Giappone, gli adattamenti cinematografici e teatrali dei suoi testi, i documentari e i video.