Giovanni Maccari, Elena Frontaloni, Elena Arnone
presentano
Tommaso Landolfi, Un paniere di chiocciole (Milano, Adelphi, 2025)
Idolina Landolfi, Racconti delle notti (Arcidosso, Effigi, 2025)
Introduce Roberto Barzanti
Sala degli Intronati in Palazzo Patrizi (Via di Città, 75 - Siena)
È disponibile il nuovo fascicolo di
«Diario perpetuo»
Landolfi nel secondo Novecento. Saggi e testimonianze
https://www.quodlibet.it/libro/9788822914552
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I Saggi raccolti nella prima sezione schiudono sentieri di ricerca lungo direttrici tematiche landolfiane (come il topos della «donna-capra», il cronotopo della casa, il mitema del vampirismo, alimentato dall’ampio patrimonio di letture russe) che percorrono il panorama della letteratura italiana del secondo Novecento e degli ultimi magmatici decenni. Ricchi di potenziali sviluppi verso altre esperienze e figure, i contributi indagano le risonanze landolfiane nella poetica o in singole opere di un ventaglio eterogeneo e plurigenerazionale di scrittori nati tra gli anni Venti e Ottanta, nonché nella produzione artistica contemporanea.
Laura Bardelli, Tracce caprine nell’Italia interna: dalla Pietra lunare al Sonaglio di Camilleri
In un’immaginaria passeggiata letteraria lungo le pendici dell’Appennino centro-meridionale, il contributo si propone di mettere a confronto la figura di Gurù, la «capra mannara» protagonista della Pietra lunare, con personaggi analoghi che compaiono nel Carcere di Pavese e in Cristo s’è fermato a Eboli di Carlo Levi, per concludere con un cenno alle metamorfosi che animano le pagine del Sonaglio di Andrea Camilleri.
Iwan Paolini, Il linguaggio sconnesso della casa: su Landolfi e Manganelli
L’articolo propone una indagine sui rapporti fra Manganelli e Landolfi, partendo da una analisi comparata dei cronotopi domestici perturbanti in Settimana di sole, Sconclusione e La palude definitiva. Proprio lo spazio domestico appare, in entrambi gli autori, luogo privilegiato di riflessione metalinguistica e metaletteraria: la residualità domestica guida infatti una più estesa riflessione e sperimentazione sui valori e le possibilità della letteratura.
Irene Palladini, Come lemuri … I russi, Landolfi, Cavazzoni: nell’altrove della traduzione e della narrazione
Il contributo si configura come una ricognizione – condotta sotto la costellazione di un vampirismo programmaticamente inteso ed esperito – di elementi tematici che percorrono le pagine dei grandi narratori russi e quelle di Tommaso Landolfi. Ad arricchire la genealogia dei lemuri concorre il fantasmeto creato da Ermanno Cavazzoni, il quale ‘eredita’ talune creazioni, sospese tra onirico e grottesco, di matrice landolfiana, ad ispessire un’appartenenza tanto eccentrica quanto salda. L’araldica di voci testimonia, in tutta evidenza, sia la centralità dell’esperienza traduttiva in Landolfi – officina ineludibile per la definizione e messa a fuoco delle sue invenzioni tematiche – sia la persistenza di motivi landolfiani nei poemi lunatici di Cavazzoni, elevando il vampirismo a principio concettuale ed espressivo.
Niccolò Amelii, Vagabondaggi nello spazio. Risonanze landolfiane ne Lo spazio sfinito di Tommaso Pincio
Mediante una lettura comparata di natura stilistica, formale e tematica che pone in dialogo Cancroregina di Tommaso Landolfi e Lo spazio sfinito di Tommaso Pincio, evidenziandone assonanze e affinità, l’intento del contributo è quello di far emergere non solo le modalità narrative e le risorse espressive attraverso cui risonanze landolfiane, seppur inconsapevoli, emergono nella tramatura e nel portato epistemologico del romanzo di Pincio, ma anche di interrogare i motivi centrali della riflessione letteraria landolfiana per cercare di illuminare come essi lavorino con la stessa intensità al fondo dell’architettura poietica dell’autore romano.
Simone Rizzi, «Tutto che passa può ferirci». Un itinerario landolfiano nei racconti di Marco Marrucci
Il contributo si propone di analizzare alcuni racconti di Marco Marrucci (San Miniato, 1985) alla luce del ‘magistero segreto’, dell’eredità sotterranea che Tommaso Landolfi ha lasciato dietro di sé. Entrambi gli autori si spingono infatti alle estreme soglie della rappresentazione letteraria, mostrando piccole e grandi crepe nel tessuto di ciò che siamo abituati a considerare come ‘realtà’, ma anche l’amara consapevolezza che quasi sempre dalla ‘realtà’ non si fugge mai davvero, o mai del tutto.
Cesare Dal Pane, «L’atroce sfinge di ieri». La figuratività di Tommaso Landolfi
Nella sua opera Landolfi ha dimostrato un forte interesse verso le arti figurative e, come ogni grande scrittore, ne è stato attratto e influenzato. Dalla sensibile educazione al mondo dell’arte ricevuta da giovane, sino agli ultimi anni di vita in cui disegnava tanto, il contatto con il mondo delle arti visive è presente anche nei suoi testi, per quanto ben nascosto. Si è tentato di ritrovare alcuni luoghi fertili dell’opera landolfiana in cui si manifesta il corteggiamento tra la letteratura e le arti figurative.
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La seconda sezione include Testimonianze di incontri con Tommaso e Idolina Landolfi, declinati non solo sui piani della lettura e dello studio, ma anche su quelli dell’amicizia e della rielaborazione letteraria.
Annelisa Alleva (Solitari gentiluomini campagnoli. Landolfi e Puškin) instaura un confronto ravvicinato tra le opere (e le persone) di Landolfi e Puškin. Alleva, con Ruggero Savinio (La casa di Landolfi) ricostruisce anche la memoria della conoscenza indiretta di Tommaso Landolfi attraverso il legame con la figlia Idolina.
A Idolina consegna la parola Francesca Serafini (Intervista a Idolina Landolfi con una premessa), in un’intervista che introduce nell’officina di Landolfi e rivela aspetti peculiari del suo modus operandi. Inoltre Serafini riflette sulla forza del suo magistero, per il meticoloso lavorio sui significanti; aspetto centrale anche nel contributo di Giordano Meacci (La passeggiata), tra riscrittura e filologia.
Paolo Albani (L’assurdità diffusa) a sua volta ‘ricrea’, omaggiando Landolfi conferenziere; mentre Davide Ruffini (Landolfi nell’aia di casa) e Vanni Santoni (Alcune lune) testimoniano l’influenza e la presenza viva dello scrittore nella narrativa più recente.
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Buona lettura
Call for papers «Diario perpetuo» (2025)
Landolfi e la critica
Il nuovo numero di «Diario perpetuo» si propone di indagare i rapporti di Landolfi con la critica, nelle sue varie declinazioni. Da un lato la ricezione e la fortuna dell’opera landolfiana nei vari “tempi” del Novecento e del secolo presente: dalle prime caratterizzazioni come «scrittore d’ingegno» alle letture più o meno consentanee che si sono succedute nei decenni, con l’avvicendarsi dei contesti e delle scuole letterarie. Nel corso di questa vicenda Landolfi ha finito per restare in qualche modo sulla soglia del canone maggiore, vuoi per caratteri intrinseci alla sua opera (elitarismo, renitenza alla comunicazione diretta), vuoi per spigolosità personali, vuoi per l’assenza di un critico mallevadore in grado di fare per Landolfi ciò che Contini ha fatto per Gadda, ossia “inventarne” una centralità pur in presenza di elementi irregolari e di uno stile fuori norma. Il fatto che il principale e più fedele sponsor di Landolfi sia stato un critico come Carlo Bo, la cui autorevolezza e persuasività sono andate calando nel secondo Novecento, ha influito senza dubbio sulle sue fortune e ha contribuito a collocarlo entro un orizzonte post-ermetico percepito come attardato nel clima avanguardistico degli anni Sessanta e Settanta. Il recupero in chiave borgesiana-postmoderna operato da Calvino con Le migliori pagine (1982) e relativa postfazione (L’esattezza e il caso), sebbene in parte artificiale, ha contribuito a riportare Landolfi all’attenzione della critica e – successivamente, dopo il passaggio al catalogo Adelphi – dei lettori, rinnovando un interesse che appare quantitativamente notevole negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso.
Questa vicenda, ancora, può essere ripercorsa per singoli momenti, o per singole voci: critici di mestiere e lettori diversi (Debenedetti e Montale, De Robertis e Sereni, Calvino, Manganelli ecc.) hanno dato interpretazioni più o meno consentanee, più o meno implicate con le proprie personali attività e preoccupazioni, che hanno segnato momenti o individuato caratteri e motivi dell’opera landolfiana. Si pensi alle considerazioni di Sereni sul “passaggio al diario”; al «massimo di chiarezza al servizio del massimo di procurata oscurità, anzi occultamento» individuato da Debenedetti; o ancora alle considerazioni di Montale sull’attitudine al falsetto nella prosa landolfiana. L’atteggiamento di singoli lettori nel corso del tempo può a sua volta presentare oscillazioni significative, e qui si pensi per esempio a Contini o ai vari pronunciamenti di Luigi Baldacci contenuti in Novecento passato remoto.
D’altro canto i rapporti fra Landolfi e la critica possono essere osservati anche nel senso opposto, seguendone l’evoluzione dalla parte dell’autore. Il gusto della provocazione e un generale dispetto verso le classificazioni critiche sono elementi costanti nella fisionomia di Landolfi, che ne esibisce i tratti ma subisce al contempo il peso dell’incomprensione e del fraintendimento. Gli affioramenti di queste percezioni contrastanti si registrano già nella prima fase della sua opera ma diventano sempre più frequenti dopo Cancroregina (1950), nella stagione dei diari e poi nell’ultima stagione, quando lo spirito polemico e un senso amaro di scollamento dal sistema letterario lo inducono all’aperta opposizione, fino al sarcasmo quasi goliardico della Conferenza personalfilologicodrammatica con implicazioni pubblicata nella raccolta Le labrene (1976). Sedi per eccellenza della riflessione su se stesso e quindi di sé come scrittore sono ovviamente i tre diari, dalla Biere du pecheur del 1953 a Des mois del 1967. Qui c’è ampio spazio anche per i distinguo sulle definizioni ricevute (per esempio di «scrittore fantastico»), e per la discussione dei propri rapporti con lettori autorevoli e con l’intero contesto letterario, il suo orizzonte d’attesa. I dubbi sul Landolfo VI destinato a uscire «al ludibrio», o anzi piuttosto «all’indifferenza»; i lamenti sulla propria scrittura «falsamente sostenuta», o sui motivi della propria indifferenza alla comunicazione; la “condanna” alla prima persona, l’aspirazione frustrata e poi il rifiuto del romanzo sono in un certo senso affermazioni critiche che Landolfi si rassegna a formulare per se stesso in assenza di qualcuno che lo faccia per lui, come scrive ironicamente in un passo di Rien va.
Una prospettiva ulteriore e forse meno indagata è quella che vede coinvolto Landolfi come critico. I saggi raccolti in Gogol’ a Roma e quelli raccolti di recente nel volume I russi offrono un quadro abbastanza esauriente della sua attività. Mostrano il lato rigoroso e persino accademico del Landolfi lettore, con punte di maligna pedanteria, e offrono un saggio della vasta e in gran parte “misteriosa”, e per questo mitologica, cultura di Landolfi. L’attività di Landolfi come critico è però in parte dispersa: mancano all’appello scritti e recensioni di argomento non russo degli anni Trenta e Quaranta, più un gruppo di recensioni in qualità di critico teatrale uscite sulla rivista «Oggi» da maggio a ottobre del 1939. In questi scritti si trovano le tracce, altrimenti affidate ai carteggi dei compagni di strada, delle idee di Landolfi sui libri dei suoi contemporanei (una stroncatura di Delfini, o la recensione alle Occasioni di Montale, tra i possibili esempi).
Infine, guardando alla fortuna postuma dell’opera di Landolfi, appare determinante il contributo della figlia Idolina nella gestione e promozione dell’opera del padre, ma anche nella sua interpretazione, espressa in numerosi articoli e interventi. Sua per esempio la definizione della scrittura landolfiana come «lunga, ininterrotta autobiografia» e l’invito a leggere i testi attenendosi al senso letterale. Gli apparati critici e in genere i paratesti che accompagnano i volumi Adelphi, così come la minuziosa Cronologia delle Opere Rizzoli (1991) configurano anch’essi un’interpretazione, oltre a essere il frutto di una rara competenza professionale.
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La proposta, di lunghezza compresa tra 1000 e 2000 caratteri, e il profilo del/della proponente dovranno essere inviati entro il 31 maggio 2024 all’indirizzo centrostudilandolfi@gmail.com.
I contributi, di una lunghezza massima di 40.000 battute, andranno consegnati entro il 15 ottobre 2024.
Le tre lingue accettate sono il francese l’italiano e l’inglese. Saranno prese in considerazione anche proposte in altre lingue coerenti con la cultura di Landolfi: russo, spagnolo e tedesco.
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La rivista «Diario perpetuo», pubblicata nella collana digitale “Note azzurre” da Quodlibet editore, è intesa, fin dal titolo, come prosecuzione ideale del bollettino pubblicato a suo tempo con cadenza annuale dal Centro Studi landolfiani, che aveva come ideatrice e principale animatrice Idolina Landolfi, scomparsa prematuramente nel 2008.
Diario perpetuo è il titolo di una rubrica che Tommaso Landolfi teneva sul «Corriere della Sera» negli ultimi e contrastati anni della sua carriera. L’accento cadeva per l’autore sul carattere autobiografico della sua letteratura, che non solo attingeva dalla vita corrente gli argomenti delle sue divagazioni, ma replicava di quella l’andamento imperfetto e frammentario, in un rapporto d’interrogazione “senza fondo” che era il tratto caratteristico della sua ultima produzione. Assumendo per il bollettino questa denominazione, Idolina alludeva a un impulso di ricerca e d’interpretazione potenzialmente infinite dell’opera del padre, a una crescita di conoscenza che accompagnasse “in diretta” l’avvicendarsi degli stili interpretativi e delle scuole letterarie. Con la più grande libertà e con quel margine di errore e provvisorietà contenuto in ogni impresa calata nel tempo.
Centro Studi Tommaso e Idolina Landolfi
Giorgio Biferali presenta La biere du pecheur
La biere du pecheur Landolfi lo immagina come una “specie di diario”, e a pensarci bene è un titolo che ne contiene due, La bara del peccatore o la birra del pescatore, a seconda degli umori di chi scrive e di chi legge. Ed essendo un diario o quasi, Landolfi non sa bene come muoversi, o almeno finge di non saperlo, e non appena entra in scena sa che dovrà ricorrere a due elementi nei quali non ha mai creduto davvero: la scrittura e la realtà. Questo piccolo grande viaggio dentro se stesso ce lo presenta come un ripiego, visto che non è riuscito a scrivere in terza persona, ci ha provato, sì, ma non c’è stato niente da fare, e quindi non gli rimane che affidarsi alla prima.
Il paesaggio che lo circonda, che in fondo lo abita, è cupo, autunnale, di un autunno che però sembra destinato a durare per sempre, e in quei rari momenti di lucidità, quando si intravedono dei piccolissimi spiragli di luce, Landolfi sembra ammettere, riconoscere la sua malattia, che va ben oltre la semplice misantropia di quelli che ci giocano anche, a fare i misantropi, che fanno i silenziosi, si autoconvincono di avere un caratteraccio, e in fondo aspettano che possa arrivare un lieto fine, che ci sia qualcuno, nel mondo di fuori, disposto a rompere il ghiaccio, a scavalcare il muro, per provare a parlarci. Landolfi no, sa bene che il suo habitat è l’inferno, un inferno che non si trova sotto di noi, che non è popolato di peccatori pronti per raccontarti la loro storia, il motivo o i motivi per cui sono finiti lì. L’inferno è la vita di tutti giorni, il quotidiano, in cui non succede mai nulla e non sappiamo mai comportarci, e il fatto di non saperlo, di contraddirci sempre, dalla mattina alla sera, fa sì che l’inferno, alla fine, non è altro che la consapevolezza di non essere in grado di trovare un po’ di pace. E allora ecco che in questo inferno ci finiscono tutti, ecco i fantasmi, che sono i morti, sì, ma non solo, sono anche quelli che non ce l’hanno fatta a nascere, che forse, per Landolfi, si sono salvati, e le donne, Anna, Adele, Bianca, Giulia, Ginevra, cui non rimane nulla, se non vivere nell’attesa, nella speranza che l’autore riesca a uscire da quel limbo grigio in cui non sa come amarle, ma non vuole neanche farle soffrire. Landolfi, nascondendosi dietro a queste pagine, cercando di non dire nulla di sé, ci dice tutto, anche se sembra impossibile poterlo aiutare. “Dicono che toccato il fondo si risalga – confessa – per questo io non lo tocco mai”.
Giorgio Biferali (Roma, 1988) ha pubblicato A Roma con Nanni Moretti (Bompiani, 2016), una sorta di diario di viaggio scritto insieme a Paolo Di Paolo; Italo Calvino. Lo Scoiattolo della penna, un racconto illustrato per ragazzi (La Nuova Frontiera Junior, 2017); L’amore a vent’anni, il suo romanzo d’esordio (Tunué, 2018), presentato al Premio Strega; Il romanzo dell’anno (La Nave di Teseo, 2019). Nel 2020 ha pubblicato Cose dell’altro mondo, una raccolta di microracconti illustrati da Elisa Puglielli, e Guida tascabile per maniaci delle serie tv (Edizioni Clichy). Collabora con quotidiani e riviste culturali, dove si occupa principalmente di cultura pop, e insegna Italiano e Storia in un liceo.
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